Un punto di approdo. Leggere Hisham Matar nell'epidemia

Pubblicato il 9/04/2021

di Fabiano Mari (articolo pubblicato su Q Code Magazine l'11/04/2020)


Reciproca esposizione


Era come se, per il solo fatto di camminare nella piazza, fossi diventato un occhio onniveggente. Ma, poiché potevo vedere ogni singolo individuo presente, ognuno di loro poteva vedere me. Era una sorta di reciproca esposizione. Qualunque cosa sia ciò che crea l’elusivo legame tra estranei che si accorgono l’uno dell’altro nello spazio pubblico, lì c’era, ma in un tale incrociarsi di correnti che l’intera piazza sembrava elettrizzata. Così, sebbene fossimo entrati in una conca, in una sorta di gigantesco bacile, piazza del Campo appariva anche sospesa, come un palcoscenico illuminato. Attraversarla è come prender parte a una coreografia vecchia di secoli, fatta per ricordare a tutti gli esseri solitari che non è bene né possibile esistere interamente da soli.


Da alcune settimane in tutte le città italiane e in molte altre città del mondo non è ammesso spostarsi al di fuori della propria abitazione privata se non per motivi di stretta necessità.

All’interno di una generale limitazione dei contatti sociali, le norme straordinarie trasformano diversi aspetti del nostro quotidiano che, forse, solo alla luce di questi nuovi vincoli possiamo mettere bene a fuoco. Un punto di approdo, l’ultimo libro di Hisham Matar appena tradotto da Einaudi, si rivela un’inaspettata guida nell’epidemia, capace di illuminare il nostro rapporto con gli altri nello spazio pubblico anche quando esso è inconsapevole, inavvertito.

Questo racconto di trenta giorni di esplorazione della città di Siena, ci insegna a guardare i luoghi in cui viviamo con la mediazione dell’arte, in questo caso i dipinti dei maestri del basso medioevo. Esso appare come un invito a utilizzare l’arte, quella che un determinato luogo ci mostra ma anche quella che si deposita nella nostra memoria, per interpretare i fatti della vita eludendo ogni forma di intellettualismo, di quell’effetto celebrativo o elitario che abitualmente accompagna l’utilizzo di riferimenti a una tradizione culturale antica.

Le prime righe di Un punto di approdo definiscono l’universo narrativo del libro. Il protagonista è lo stesso Matar, che in prima persona racconta i trenta giorni trascorsi a Siena collocandoli con precisione nella sua biografia.

Lo scrittore che arriva a Siena ha appena concluso il suo ultimo libro, Il ritorno, romanzo in cui narra il primo viaggio in Libia compiuto dopo trent’anni di esilio, alla caduta di Gheddafi, nel tentativo di ritrovare suo padre, dissidente politico sequestrato dal regime nel 1990 e da allora scomparso. E’ certamente possibile vedere in questo nuovo libro un’appendice del precedente, il capolavoro che è valso all’autore il premio Pulitzer per la narrazione biografica, tuttavia qui ci interessa sottolineare gli aspetti che permettono di leggere Un punto di approdo alla luce dell’epidemia in corso.

Matar si dice “riemerso a fatica da quel periodo di lunga concentrazione” passato a scrivere il romanzo dedicato alla ricerca del padre. Proprio allora, quando Il ritorno è in stampa, presumibilmente nei primi mesi del 2016, decide di recarsi a Siena, attratto dai pittori che fino a quel momento aveva visto esposti nei musei di Londra e di altre parti del mondo. Trascorrendo i suoi giorni nella cittadina, prima in compagnia della moglie e poi da solo, Matar compie continue visite al Palazzo Pubblico e alla Pinacoteca, percorre i vicoli, varca le mura antiche per arrivare dove la città finisce:


“Guardavo la mappa dalla città, che stava permanentemente aperta sul tavolino tra le due finestre, e riuscivo a ripercorrere non solo l’itinerario principale, ma anche le sue zigzaganti divagazioni. Era come se la forma di Siena mi si fosse stampata in mente. Tutto ciò mi faceva sentire non tanto dentro una città ma dentro un’idea, un’allegoria che si prestava, come un vecchio abito di buon taglio, alle mie necessità”.


Siena non è un oggetto da osservare, non è né una cartolina né la pagina di un manuale di storia, così come non lo sono le stanze dei suoi palazzi e dei suoi musei. I luoghi sono parte della nostra memoria e della nostra mente, “forse ognuno di noi porta con sé, insieme a tutto ciò che ci è accaduto, una privata genealogia di stanze”. Lo scrittore venuto da Londra a visitare la città toscana e i suoi dipinti si adopera premurosamente a percepire un’intimità con i luoghi che attraversa: “non sono mai incurante di dove mi trovo e di quanto spesso ho desiderato esserci”. Così la possibilità di muoversi, di cui un essere umano può essere privato col proprio consenso o in maniera coatta (per quarantena o, ad esempio, detenzione) è innanzitutto la possibilità di appagare il desiderio di un luogo cui attribuire un significato, di “isolare un’area in cui interpretare sé stessi, dove decidere che cosa è importante, che cosa bisogna privilegiare e che cosa lasciare fuori”,


Solidarietà nazionale


I personaggi minori che si inseriscono, con la casualità degli incontri che si fanno in un viaggio, all’interno del racconto di Matar sono in ordine di apparizione, se si escludono le figure degli affreschi e delle tele dei pittori senesi, una donna nigeriana che attende fuori dalla prefettura di poter richiedere il passaporto italiano dopo ventitré anni di residenza, una famiglia giordana stabilitasi a Siena da trent’anni, una giovane insegnante di lingua italiana.

Nessuno dei tre incontri, per essere narrato, chiama in causa l’Italia come nucleo di significati. La donna nigeriana, che pure vive un conflitto con le istituzioni italiane, lascia che questa condizione rimanga accennata sullo sfondo. Ciò che emerge, piuttosto, è il suo nitido desiderio di poter tornare in visita al paese d’origine.

Kareem, il figlio maschio della famiglia araba che invita Matar nella propria casa, racconta di essere stato incluso fin dalla nascita nella comunità della sua contrada senese, attraverso un rito di battesimo civile riservato a tutti i nuovi nati del quartiere. Il contesto in cui si iscrivono, quindi, i personaggi della famiglia, è sulla scala della prossimità di vicinato, non ci sono riferimenti al loro rapporto con il paese in cui sono immigrati.

Con Sabrina, l’insegnante d’italiano, lo scrittore prova “quell’affinità che unisce le genti del Sud, una demarcazione reale e tangibile in Italia” che suona come una deliberata negazione della rilevanza dei confini nazionali. Sabrina infatti proviene dalla Calabria. Nelle poche pagine che la riguardano, il tratto più importante nel definire il suo legame con lo scrittore è il fatto di aver perso il padre l’anno prima.

Rilevare l’assenza di un discorso sulla nazione Italia in questo piccolo viaggio di uno scrittore libico nato a New York e vissuto al Cairo, che dall’età di 17 anni abita a Londra, nei rapporti affettivi che crea con i personaggi che incontra, può sembrare una riflessione improduttiva.

Tuttavia, se non c’è traccia di italianità in questi legami inattesi, l’“oggetto prezioso” delle giornate senesi dello scrittore, quest’assenza cresce di importanza se si nota che l’Italia come nucleo di significati, in particolare come soggetto geopolitico, compare nel libro solo attraverso i giornali e la televisione. I brani in cui Matar ci informa di essersi imbattuto per caso nelle notizie di attualità che i media italiani riportano sulla guerra civile che era ed è in corso in Libia, non sono che brevissimi accenni. Uno di questi è particolarmente asciutto, resta sulla pagina senza svilupparsi in alcuna riflessione:


“Ho camminato a lungo per la città, poi mi sono seduto in un caffè con una birra e il quotidiano, che inaugurava una serie di articoli sulla violenza nel mio paese, affermando, se avevo capito bene, che ‘anche gli Stati Uniti riconoscono l’importanza del ruolo dell’Italia nel pianificare le operazioni del mondo occidentale contro l’Isis in Libia’.


Sono passaggi di questo tipo gli unici in cui nel libro affiora una dimensione nazionale. L’esplorazione di Siena compiuta da Matar ci suggerisce empiricamente l’ipotesi che i sentimenti di comprensione, compassione e inclusione in una comunità possano essere parte dell’esperienza di vita delle persone che si trovano a condividere uno spazio, pubblico o privato, assumendo forme diverse e persino casuali.

Se in questi giorni, nel corso dell’emergenza legata alla diffusione del Covid19, sono molte le manifestazioni collettive del desiderio di superare l’epidemia che comprendono un’affermazione spontanea di “italianità”, l’assenza di quest’elemento nell’esperienza del protagonista del libro e la sua unica comparsa come costruzione mediatica e politica, ci può aiutare a non confondere i due piani, a non mescolare la condivisione spontanea di chi vive una stessa condizione con elementi estranei come i discorsi “alla nazione” proferiti dalle istituzioni in questo periodo.


L’epidemia


“Le conseguenze della peste nera in Europa furono per molti versi simili a quelli di una guerra civile – quelle guerre molto civili attualmente in corso in Siria e in Yemen e, su scala ridotta, nel mio paese. L’epidemia in Europa alimentò il settarismo violento e il divario sociale. Avevo conservato un’immagine da una lettera del Petrarca, in cui il poeta descrive alcuni effetti della Peste nera di cui era stato testimone: ‘fatte vuote le case, deserte le città, squallide le ville, pieni di cadaveri i campi, orrenda in ogni luogo e spaventevole la solitudine’. Come nelle odierne guerre civili il morbo offrì ai gruppi criminali l’occasione di spadroneggiare. A Siena saccheggiavano le case abbandonate e derubavano i vivi, la città somigliava sempre più agli Effetti del cattivo governo”.


Un intero capitolo di Un punto di approdo è dedicato all’epidemia di peste del 1348. Esso prende le mosse dall’osservazione degli affreschi della cappella del Palazzo Pubblico, dove Matar si reca più volte. Le decorazioni della cappella sono successive all’epidemia, mentre tutti i dipinti più noti della scuola senese precedono quest’evento cruciale per gli abitanti del Medio Oriente, del Nord Africa e di tutta l’Europa.

Lo scrittore coglie l’occasione di ragionare sugli effetti di un singolo evento sull’arte e la mentalità di un’epoca, ma lo fa mettendo ogni volta le opere pittoriche o letterarie in connessione con le biografie e le memorie dei singoli autori, ipotizzandone i sentimenti. In questo capitolo aumenta il numero di citazioni, sembrerebbe quasi il brano più erudito dell’intero libro.

Anche in questo caso, tuttavia, non c’è alcun compiacimento intellettuale, traspare anzi la necessità dello scrittore di dare all’epidemia l’importanza che merita, il suo bisogno di ragionare di più, e soltanto per questo utilizzare di più i propri strumenti di conoscenza. L’epidemia è quella esperienza umana condivisa che interviene a mutare le relazioni tra le persone, l’arte ha il ruolo di rendere manifeste le possibilità che nascono da tale condivisione.

Tornando, infine, alle prime pagine del libro, riscopriamo così le motivazioni che hanno portato Matar a intraprendere il suo viaggio a Siena. Sono le stesse motivazioni che possono portarci ad aprire il suo libro durante l’attuale epidemia:


“Osservando attentamente le loro opere (dei pittori senesi) si ha l’impressione di origliare una delle conversazioni più affascinanti della storia dell’arte relativa a cosa un dipinto possa essere, a cosa possa servire, cosa possa fare e ottenere nel dramma intimo di un solitario confronto con un estraneo. Si intuisce che si chiedevano quanto un quadro possa contare sulle emozioni di chi guarda; quanto un’esperienza umana condivisa possa mutare il contratto fra artista e spettatore, e fra artista e soggetto; e quali possibilità creative possa offrire tale inedita collaborazione. Ecco perché quei dipinti mi sembravano allora, malgrado l’iniziale sconcerto, e tuttora mi sembrano, l’espressione di un sentimento di speranza. C’è in essi la convinzione che quanto ci accomuna sia più di quanto ci separa”.

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